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Cina: la “nuova era” di XI in un mondo compiutamente multipolare

9 Novembre 2022 | Cina, Heartland

di Alberto Bradanini

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Rispettando le previsioni, il 22 ottobre scorso Xi Jinping è stato incoronato per un altro quinquennio quale leader politico della Repubblica Popolare.

Con tale incoronazione, la Cina apre una pagina inedita nella sua organizzazione istituzionale, mentre la dirigenza del paese si avvia su un sentiero potenzialmente insidioso. Dopo la chiusura dei battenti del XX Congresso del Partito Comunista Cinese (Pcc), il neoeletto Comitato Centrale (203 componenti e 168 supplenti) ha nominato i 24 membri dell’Ufficio Politico, che ha poi scelto al suo interno i sette del Comitato Permanente (Xi Jinping, Li Qiang, Zhao Leji, Wang Huning, Cai Qi, Ding Xuexiang e Li Xi ), l’organo dove si concentra il potere supremo.

Xi Jinping è stato confermato Segretario Generale del Partito e Presidente della Commissione Militare Centrale e nella prossima primavera sarà ri-eletto anche Presidente della Repubblica.

Insieme all’attuale premier Li Keqiang, escono di scena Li Zhanshu, Han Zheng e Wang Yang, che pure alla vigilia era indicato tra i candidati alla carica di Primo Ministro. Tra i subentranti, troviamo il capo del Partito a Shanghai, Li Qiang (che prenderà il posto di Li Keqiang), Cai Qi, Ding Xuexiang e Li Xi, tutti strettamente legati a Xi Jinping. I due rimanenti, Zhao Leji e Wang Huning, anch’essi fedelissimi del leader, restano al loro posto per un altro quinquennio.

A cascata, tutte le cariche che contano, tra cui i responsabili della propaganda, della disciplina nel Partito e della lotta alla corruzione (quest’ultima strumento utilizzabile anche per far fuori i nemici politici) vengono attribuite a funzionari di indiscussa lealtà al Capo Supremo.

Per tutti, salvo eccezioni, l’esito del XX Congresso ha rappresentato un successo pieno per il leader attuale. Egli è riuscito a neutralizzare quelle frange del Partito che insieme ai malumori generati dalla strategia zero-Covid avrebbero potuto raccogliere i dissensi nascosti nei labirinti del Partito e nel paese (entrambi non facilmente misurabili).

Come spesso avviene, tuttavia, il diavolo si nasconde nei dettagli. Innanzitutto, avanzando alla testa dei Magnifici Sette verso il palco della Grande Sala del Popolo per incontrare i giornalisti, Xi Jinping ha offerto plastica evidenza di esser venuto meno ai suggerimenti di Deng Xiaoping, secondo il quale la dirigenza del Partito avrebbe dovuto rinnovarsi ogni due mandati, vale a dire dopo dieci anni di potere.

Tale rottura con il passato (sia Jiang Zemin che Hu Jintao vi si erano attenuti) rischia ora di pesare come una spada sul capo di Xi Jinping. Secondo Deng, se il passaggio di consegne da una generazione a un’altra non avviene secondo tempi e modi prestabiliti, le istituzioni ne soffrono e cresce il rischio di destabilizzazione.

Per il Piccolo Timoniere la senescenza anagrafica della nomenclatura, unita a quella politica, sarebbe stata una miccia sempre accesa sulla stabilità del sistema cinese, fondato come noto sulla cooptazione dall’alto. Le evidenze storiche erano lì a comprovarlo: in Unione Sovietica, una dirigenza incanutita e distante dal popolo era stata una causa sistemica della sua implosione e nella stessa Cina il tentato colpo di stato di Lin Piao nel 1971 era da attribuirsi alla maldigerita rimozione quale successore designato poiché, nella sua corretta percezione, Mao sarebbe stato detronizzato solo dalla morte.

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