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Cile: tanti vaccini, tanti contagi, tante disuguaglianze

22 Aprile 2021 | America Latina

Poco meno di un mese fa, il Cile appariva sulle pagine dei giornali di diversi Paesi del mondo come “campione” di velocità nella somministrazione dei vaccini contro il Covid-19, giocandosi il primo posto nel ranking internazionale con Israele e Stati Uniti. Nel giro di poche settimane, gli stessi giornali e anche governi esteri (come quello inglese e quello scozzese) tornano a citare il Paese andino, ma stavolta come un “anti-modello”, un esempio da non seguire. Questo perché, a fronte di un effettivo avanzamento a grandi passi della campagna vaccinale, il numero dei contagi e dei ricoveri aumenta esponenzialmente, con i tassi più alti mai registrati dall’inizio della pandemia (superando i 9 mila contagiati giornalieri) e il fragile sistema sanitario ormai al collasso.

Ma come si spiega questa apparente contraddizione?

Innanzitutto va detto che effettivamente il Cile ha somministrato dosi di vaccino anti Sars-CoV-2 in maniera molto efficiente, ma in questo il merito dell’attuale governo è abbastanza scarso. Il sistema vaccinale cileno ha una lunga storia di efficacia: il deputato Ramón Allende nel 1877 presentó la prima proposta di vaccinazione obbligatoria nel Paese e suo nipote Salvador, prima come ministro della Sanità negli anni ‘50 e poi come Presidente del Cile dal 70 al 73, diede una spinta importante per la creazione di un sistema vaccinale pubblico molto ben organizzato e capillare, che è riuscito a sopravvivere nel corso dei decenni nonostante la dittatura civico-militare e il neoliberismo. Oltre che a motivi storici, il “successo cileno” va attribuito anche all’enorme e lodevole sforzo dei lavoratori della salute a livello territoriale e alla capacità di ottenere molte dosi dei vaccini Pfizer-BionTech (statunitense-tedesco) e Sinovac, soprattutto grazie alla partecipazione di enti sanitari e università cilene nella sperimentazione di questi vaccini.

Pur avendo poco a che vedere con questi record vaccinali, il governo di destra di Sebastián Piñera, con indici di gradimento ai minimi storici, ha approfittato della situazione per sbandierare come propri i risultati positivi della vaccinazione. Il suo abituale trionfalismo è stato accompagnato da un rilassamento delle restrizioni, caratterizzato da misure come la riapertura dei grandi centri commerciali e dei casinó (di alcuni dei quali lo stesso Piñera sarebbe un azionista, coperto da prestanome) e il “permesso per le vacanze” che ha consentito spostamenti sul territorio nazionale nei mesi estivi di gennaio e febbraio. Tutto ciò ha contribuito a diffondere una falsa sensazione di tranquillità e di buona gestione della pandemia, del tutto fuorviante. La cosiddetta “comunicazione del rischio” è stata fallimentare. Il presidente Piñera e i due ministri della Sanità che si sono succeduti, nel corso dell’ultimo anno hanno dimostrato di non sapere (o forse, di non volere) gestire la crisi del Covid-19 né dal punto di vista sanitario, né da quello sociale. Fedeli al neoliberismo più spietato, hanno sempre privilegiato l’economia alla salute, le aperture del commercio alla cura delle persone, gli affari privati all’interesse pubblico, di fatto abbandonando la popolazione al proprio destino. Sempre restii alle quarantenne, nei momenti in cui sono stati costretti a implementarle, non hanno messo in piedi dei sistemi di sussidi pubblici per permettere alla gente di poterle rispettare. Gli investimenti pubblici in ricerca e salute, poi, sono rimasti scarsi, sempre a causa del dogma del non-intervento pubblico in settori economici dominati dai privati. 

Risultato di tutto questo: un aumento dei contagi mai visto finora, strutture sanitarie in affanno e necessità di ripristinare le restrizioni in fretta e furia.

Viste le cifre, quasi tutto il Paese è ritornato in lockdown totale e le aperture ora sono consentite solo alle attività economiche essenziali. Una decisione che ha generato molte polemiche è stata quella, presa a ultima ora, di spostare di cinque settimane la due giorni di elezioni prevista per il 10 e 11 di aprile, a detta di Piñera “per proteggere la salute delle persone e della nostra democrazia”. Le nuove date per la tornata elettorale in cui cilene e cileni sceglieranno i propri sindaci, consiglieri comunali, governatori regionali e delegati incaricati di scrivere la nuova Costituzione, sono il 15 ed il 16 di maggio.

La situazione sanitaria di queste settimane è di fatto molto critica in Cile, la priorità va ovviamente data alla vita della gente, che tra l’altro sarebbe meno propensa a partecipare ad elezioni così importanti per la Storia del Paese per paura del contagio. Ciononostante, da molte parti sono state sollevate critiche a questa scelta di Piñera, la cui mala fede non ci sorprenderebbe, visti i precedenti. C’è chi pensa che questa decisione sia stata presa in extremis per “salvare la faccia”, per mostrare un minimo interesse verso la salute della gente di fronte a cifre che dimostrano un fallimento evidente della gestione governativa. C’è chi dice che il presidente abbia voluto spostare più in là gli scrutini per dare un po’ più di tempo di campagna elettorale alla sua parte politica, la destra, che secondo alcuni sondaggi sarebbe in affanno, soprattutto nell’importante elezione dei costituenti. C’è chi sostiene che a farne le spese saranno i partiti più piccoli e le candidature indipendenti, che non avranno abbastanza risorse per prolungare, di fatto, la campagna elettorale di oltre un mese. 

Non si sa se da qui a metà maggio la situazione sanitaria sarà migliorata: la scommessa è che aumentino ancor di più le vaccinazioni e si riduca la mobilità. Tuttavia, il sindacato dei medici ha già fatto intravedere la possibilità di un ulteriore spostamento delle elezioni, che potrebbero pericolosamente accavallarsi con le parlamentari e le presidenziali, previste per il prossimo novembre 2021.

L’unica cosa evidente è che lo spostamento degli scrutini ed il nuovo lockdown non sono stati accompagnati da misure economiche che possano rendere socialmente sostenibili queste restrizioni. I pochi sussidi messi sul piatto dall’esecutivo sono evidentemente insufficienti e non arrivano in maniera capillare alla popolazione, vuoi per i requisiti molto stringenti, vuoi per l’elevato tasso di burocrazia. Il rischio è che si ripeta quello che abbiamo visto da un anno a questa parte, e cioè che la gente si trovi nuovamente costretta, per sopravvivere, a dover trasgredire le quarantene rischiando il contagio, in un Cile del 2021 in cui il lavoro informale secondo le ultime stime dell’Istituto Nazionale di Statistica rappresenta il 30% del totale dell’occupazione.

Uno studio della Banca Mondiale apparso in questi giorni rivela che nell’ultimo anno in Cile la fascia delle persone economicamente vulnerabili, con entrate di poco al di sopra della soglia di povertà, è aumentata di 2,3 milioni. In un Paese di poco più di 18 milioni di abitanti. Nello stesso periodo, nel Paese culla del neoliberismo selvaggio e delle estreme disuguaglianze, contro le quali dall’ottobre 2019 si è sollevata una massiva rivolta popolare, i patrimoni delle 8 famiglie più ricche, tra le quali figura quella del presidente Piñera, sono aumentati di oltre il 70%, un record. È quanto si evince dal nuovo ranking dei multimilionari del pianeta apparso sulla rivista Forbes.

Per provare a iniziare un percorso di riduzione di queste feroci disuguaglianze, qualcosa si sta muovendo. È in discussione in queste settimane nel Parlamento cileno una proposta di legge, presentata dalla deputata comunista Camila Vallejo e appoggiata da diversi settori dell’opposizione, di “impuesto a los súper ricos”. Una patrimoniale una tantum che significherebbe un prelievo del 2,5% ai patrimoni uguali o superiori ai 22 milioni di dollari. Il denaro ricavato da questa tassa eccezionale servirebbe a finanziare per alcuni mesi un “reddito di emergenza” a beneficio del 90% circa delle famiglie in difficoltà. Non sarà facile andare contro i grandi interessi che si oppongono a misure redistributive di questo tipo, ma per la gente comune un reddito universale, almeno per alcuni mesi di pandemia, resta la sola speranza per poter sopravvivere evitando il rischio di contagiarsi. 

Domenico Musella – da Santiago del Cile