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Elezioni in Messico: l’Obradorismo nel suo labirinto

12 Giugno 2021 | America Latina

di Massimo Modonesi

Il blocco di Andrés Manuel López Obrador ha vinto le elezioni di medio termine ma per meno di quanto si aspettasse; l’opposizione guadagna terreno, ma è  ben lontana dallo sconfiggere il partito al governo. La “Cuarta Transformación” camminerà quindi su un terreno paludoso e farà affidamento più di prima sui suoi alleati. Il fronte “tutti contro AMLO”, egemonizzato dalla destra, mostra i propri limiti  anche quando si tratta di generare entusiasmo sociale.

Ci si aspettava una vittoria del Movimento di Rigenerazione Nazionale (Morena), e dei suoi satelliti, nelle elezioni per eleggere i membri del Parlamento, governatori e sindaci lo scorso 6 giugno. Una vittoria clamorosa che confermerebbe gli equilibri emersi dalla valanga del 2018 e rafforzerebbe il governo di Andrés Manuel López Obrador. Si è trattato però di un’elezione in cui, in assenza di entusiasmo presidenziale e con una bassa affluenza alle urne tipica delle elezioni di medio termine, le forze governative hanno ripiegato senza perdere la maggioranza assoluta al Congresso ed hanno ampliato il proprio controllo territoriale. E l’opposizione, riunita nella coalizione Going for Mexico, avanza ma senza riuscire a modificare la composizione della Camera dei deputati.

Anche se Morena si conferma primo partito con più di un terzo dei voti a suo favore e conquista importanti governatorati, non è riuscito a soddisfare le sue aspettative di crescita. L’obradorismo ha perso la maggioranza necessaria per proporre riforme costituzionali, dipende dal Partito Laburista (PT) e dal Partito Ecologista Verde del Messico (PVEM, che non è propriamente ambientalista) per la vita quotidiana parlamentare e mostra limiti preoccupanti in varie località, come , Città del Messico, dove diversi sindaci erano nelle mani dell’alleanza di opposizione che univa il Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), il Partito di Azione Nazionale (PAN) e il Partito della Rivoluzione Democratica

A parte i dati, che non modificano radicalmente la scena politica, l’equilibrio simbolico della battaglia lascia i lavoratori delusi ma non sconfitti e l’opposizione confortata ma non vincente. Tuttavia, più che i meriti della destra, il fatto politico di fondo che emerge è che Morena e i suoi alleati, la coalizione Insieme faremo la storia, sembrano pagare il prezzo delle proprie contraddizioni. Il progetto della Quarta Trasformazione (Q4) mostra così i suoi limiti e apre un fianco che potrebbe far risorgere – prima del previsto – le forze più conservatrici e reazionarie del Paese.

La coalizione di opposizione egemonizzata dalla destra, che soffre di una mancanza di coerenza e di un progetto alternativo, non ha raccolto un seme politico ma ha aggiunto indiscriminatamente alleati e argomenti, ricorrendo a discorsi e pratiche controverse, caricaturando la scena politica e appellandosi al scissione di democrazia/autoritarismo più che  liberalismo/socialismo.

L’opposizione non può cantare vittoria poiché, nonostante abbia fermato il “marroncino” della geografia politica nazionale, la propria crescita è stata di appena un paio di punti percentuali per PAN e PRI mentre il PRD, pur essendo salito sul delle destre, è sull’orlo dell’estinzione. Paradossalmente è cresciuto il Movimento Cittadino (MC), che ha deciso di tenersi fuori dai grandi blocchi.

Pur con l’appoggio dei nuclei più influenti e retrogradi delle classi dirigenti e dei media che ne fanno parte, la destra è riuscita a pareggiare, quando tutto annunciava una clamorosa sconfitta come quella del 2018. Allo stesso tempo, si tratta di un pareggio catastrofico perché nessuno dei contendenti ha interesse ad esacerbare il conflitto, ma piuttosto a preservare quanto vinto in vista del prossimo e più importante confronto. Mentre la destra dovrá pensare a qualcosa di più coerente e costruttivo per aspirare a riconquistare la Presidenza della Repubblica, Morena dovrà leccarsi le ferite per sanarle prima del 2024. Eventualmente, potrebbe provare a rialzare la testa ad agosto, sventolando la bandiera anticorruzione e giustizialista, se la partecipazione sará massiccia in occasione del referendum che consentirebbe i processi agli ex presidenti.

Sebbene siano evidenti i nodi problematici che hanno influenzato il declino elettorale dell’obradorismo, non è facile classificare l’ordine dei fattori. A Città del Messico, ad esempio, può aver pesato la recente tragedia dell’incidente sulla linea 12 della metropolitana, ma anche un’inerzia di classe che è profondamente radicata territorialmente, nella distribuzione urbana della ricchezza, così come nei modelli di convivenza e nel buon senso che corrisponde loro.

D’altra parte, su scala nazionale, la necessità di espandersi ha portato Morena a reclutare indiscriminatamente dirigenti con background e traiettorie molto discutibili, secondo una logica pragmatica che riproduceva il principio di riproduzione endogena della classe politica e solo in piccola parte si apriva al  passaggio generazionale per poter incorporare i giovani, la cui volontà e capacità di rinnovare le pratiche politiche tradizionali deve ancora essere dimostrata.

La selezione dei candidati è stata particolarmente frettolosa, effettuata attraverso un processo di designazione verticale, la cosiddetta “impronta digitale”, mediata solo occasionalmente dai sondaggi, quando questi, per quanto controversi, erano considerati obbligatori per statuto. Morena non è mai diventata il movimento-partito che prometteva nella sua dichiarazione di principi e dall’arrivo di López Obrador alla presidenza ha rinunciato definitivamente a qualsiasi tipo di pratica formativa o partecipativa, diventando un apparato elettorale e un meccanismo di appoggio al governo, con una leadership che valorizza il pragmatismo e l’opportunismo.

Il processo elettorale del 6 giugno è stata un’altra occasione persa per mobilitare, sensibilizzare e politicizzare quei settori sociali che il movimento operaio pretende di rappresentare e che la “Qaurta Trasformazione” intenderebbe emancipare. Riproducendo i vuoti schemi delle campagne elettorali tradizionali, senza alcuna innovazione comunicativa o partecipativa, i livelli di astensione delle precedenti elezioni di midterm (che si aggirano intorno al 50%) sono stati ampiamente mantenuti e si può ipotizzare che il voto utile si sia allargato in entrambe le direzioni. a scapito del voto per convinzione. Se può esserci disincanto per la speranza che il movimento operaio ha voluto risvegliare, senza dubbio continua a diffondersi la sfiducia nei confronti delle possibilità di cambiamento ideale e vocazionale delle élite politiche. Le congiunture elettorali non sono viste come opportunità di diffusione e contrasto tra concezioni del mondo ma tra distorsioni o simulazioni dello stesso. In questa logica, in Messico una coalizione di destra che si finge opposizione democratica a una dittatura populista sembra essersi confrontata con una coalizione di governo che si finge un progetto di trasformazione rivoluzionaria interclassista, assediata dal colpo di stato dell’oligarchia nazionale , i mass media, la classe media, l’Istituto Nazionale Elettorale (INE), la CIA e l’Economist.

Dietro gli eccessi retorici c’erano gli animi surriscaldati degli interessi specifici in gioco in queste elezioni, circa 20.000 seggi e seggi che, oltre ad essere visti come obiettivi professionali, tutelavano l’accesso ai fondi pubblici e la possibilità di orientamento di una serie di politiche pubbliche. Ma c’è stato anche il tentativo, condiviso da tutta la classe politica, di dare un senso alla campagna elettorale in cui sono emerse, più che le virtù, le miserie di entrambe le parti, in cui si è stabilito che la distinzione è un’esigenza elettorale per contrastare il sentimento diffuso che come dice il proverbio popolare, “non è lo stesso ma è lo stesso” e il meno peggio sembra peggiorare di giorno in giorno.

Tornando al labirinto della “Quarta Trasformazione”,  la carismatica leadership di López Obrador, che trova la sua proiezione pubblica nei suoi monologhi mattutini, si sta chiaramente rivelando un’arma a doppio taglio, che ferisce anche chi la usa. Il presidente messicano suscita simpatie e antipatie, personalizza e incarna virtù e vizi della “Quarta Trasformazione”, è una garanzia della sua portata ma anche una ragione dei suoi limiti. In tutti i casi, incoraggia l’adesione entusiasta, per quanto passiva e tendenzialmente disorganizzata, poiché diventa il bersaglio che organizza il discorso e il perimetro dell’opposizione.

Per questo motivo, il fenomeno che muove, scuote e polarizza il Messico è l’obradorismo, non la “Quarta Trasformazione”, una presunta trasformazione che vuole superare il neoliberismo -o di ciò che è inteso come tale- e che, per nomina presidenziale, dovrebbe equivalere all’indipendenza, la riforma liberale juarista e la rivoluzione messicana. Appare, sullo sfondo delle elezioni, questa tensione tra neoliberismo e post-neoliberismo, anche se, paradossalmente, né la destra rivendica il primo né l’obradorismo il secondo, né è chiaro quali siano i tratti di medio raggio del progetto di trasformazione promosso attraverso riforme puntuali -che, peraltro, non sembrano avere significato strutturale.

Infatti, uno dei colpi di scena del labirinto dell’obradorismo è che, nonostante la retorica, si vuole evitare la biforcazione tra trasformazione e conservazione, cercando di coniugare virtuosamente le due, ponderando alcuni ingredienti per il recupero dell’iniziativa pubblica in campo delle risorse risorse energetiche, quote di redistribuzione della ricchezza (attraverso sussidi e aumento del salario minimo) e altre misure progressive senza provocare la reazione delle classi dirigenti nazionali e internazionali, rispettando i loro patrimoni e il loro controllo proprietario del processo produttivo, invitandole ad aderire patriotticamente per continuare ad arricchirsi ma moderatamente, “per il bene di tutti”. Quindi l’addizione si trasforma facilmente in sottrazione: l’equazione interclassista può lasciare insoddisfatte le classi subalterne e non riuscire a realizzare la collaborazione dei gruppi dominanti. Per non parlare dell’universo dei diritti civili, in particolare dell’uguaglianza di genere e della difesa dell’ambiente, in cui il movimento operaio e la “Quarta Trasformazione” mostrano il loro volto più conservatore e provocano reazioni che diminuiscono la loro capacità di trattenere il voto dei settori medi urbani. 

È evidente che López Obrador non ha la pietra filosofale che garantisce la stabilità alchemica di un processo di cambiamento che, seppur limitato, sconvolge gli equilibri, genera aspettative e altera posizioni consolidate. Quindi, nonostante mostri una certa padronanza delle acrobazie politiche, camminerà sul filo del rasoio fino alla fine del suo mandato. Allo stesso tempo, la trasformazione sociale non può essere compito di una sola persona e di un gruppo di amici intimi, senza generare le condizioni per un vero sconvolgimento dei rapporti di forza a causa dell’irruzione delle classi popolari sulla scena politica. Altrimenti, il drammatico paradosso di una svolta riparatrice potrebbe essere vissuto senza che ci sia stata una rivoluzione, o qualcosa di simile.
articolo originale Elecciones en México: el obradorismo en su laberinto | Nueva Sociedad (nuso.org)